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venerdì 2 ottobre 2009

Terza esperienza: Mazabuka



L'esperienza del ritorno a Mazabuka del gruppo di volontari ha arricchito ancor più il corredo di emozioni e partecipazione, come testimoniato nel filmato accluso.
Nel mensile "Città domani", numero di settembre 2009 Alessandra Brucoli parla della sua partecipazione e delle esperienze del gruppo. La riportiamo di seguito.

“ZIKOMO … TWALUMBA … GRAZIE AFRICA!!! CRONACA DI UN VIAGGIO DI VOLONTARIATO”

“Il respiro del panorama era immenso. Ogni cosa dava un senso di grandezza, di libertà, di nobiltà suprema…Lassù si respirava bene, si sorbiva coraggio di vita e leggerezza di cuore. Ci si svegliava la mattina, sugli altipiani, e si pensava: “Eccomi qui, è questo il mio posto””
“Out of Africa”
Karen Blixen

Lo scorso 23 luglio sono salita su un aereo che sapevo, per mia scelta, mi avrebbe portato in un luogo che avevo conosciuto l’estate precedente: l’Africa. Il mio, però, non si prospettava assolutamente come un viaggio di piacere: non avevo scelto come meta le spiagge bianche di Malindi in Kenya, non volevo passare l’estate in Costa d’Avorio, non avevo nemmeno prenotato un soggiorno nell’isola di Madagascar! Insomma, nel mio caso l’unico motivo che mi spingeva a fare un viaggio così lontano è stato il volontariato. Insieme a me altre 16 persone hanno preso la stessa decisione e, partendo all’interno del progetto “Un Mondo Di Bene 3” del Liceo Scientifico “O. Tedone” di Ruvo di Puglia, meta comune è stato lo Zambia, in particolare “the sweetest place in Zambia”, ‘il posto più dolce dello Zambia’ ovvero Mazabuka, il paese a 200 km da Lusaka (la capitale), dove da 18 anni opera come missionaria Suor Maria Mazzone, mia concittadina. Il progetto che a partire dallo scorso anno impegna lei e noi così tanto si chiama “City of Joy” ed è una ‘piccola città’ dove ragazze a rischio di dispersione per svariati motivi potranno trovare un ‘tetto’ per poi ricominciare una vita tenendosi alle spalle il passato. È, quindi, un progetto simile a “City of Hope” (a Lusaka), il precedente progetto a cui la nostra Sister ha lavorato con la massima energia e che adesso funziona a pieno ritmo! Ma ritorniamo a Mazabuka…o meglio…a qualche momento prima dell’atterraggio.
Se l’anno scorso c’era la trepidazione per l’inizio di un’esperienza completamente ignota, quest’anno c’era la piena consapevolezza e la volontà di voler fare qualcosa di concreto..pur sapendo che oltre un certo limite non si può mai andare!
Così, nel momento esatto in cui sono scesa dall’aereo e ho messo piede sul suolo africano, ho capito perfettamente che stavo iniziando qualcosa di poco comune. L’arrivo a Mazabuka è stato particolare: ricordavo ogni angolo del paese, anche di sera sono riuscita a riconoscere la “Bethlem Bakery” che l’anno prima mi ha fatto assaggiare il pane più buono che avessi mai mangiato, ricordavo perfettamente che i rallentatori per raggiungere la “Community House” di Don Maurizio erano sette, e come non scordare il grande supermercato “Konkola” e subito dopo “Shoprite”! Ad un tratto, il pulmino in cui mi trovavo ha iniziato a ‘ballare’…aveva intrapreso una strada non asfaltata, piena di buche…fu lì che capì che ero quasi arrivata. Ultima curva a sinistra, salita un po’ troppo ripida e ci siamo!!! Eccomi giunta a “City of Joy”…la casa dove ho lavorato lo scorso anno è illuminata, ma noi ci fermiamo prima: destinazione “Casa del Volontario”! Scorgiamo un esile sagoma che ci attende sui gradini, è Sister Agnes che ci riserva una calorosa accoglienza, come sempre. Entrando ci travolge il senso di familiarità per i nuovi ambienti e la grande tavola apparecchiata ci fa tornare alla mente i momenti di condivisione vissuti l’anno precedente. Mentre ognuno porta dentro casa i suoi bagagli, Suor Maria, orgogliosa del suo progetto, ci illustra la struttura e ci spiega come sistemarci…subito dopo conosciamo Sean, il nostro coinquilino americano, anche lui volontario, che si vede la casa invasa da 13 persone nuove e inizia a pensare di aver finalmente abbandonato la vita da eremita (è stato il primo ad abitare da solo quella casa da fine maggio)! La serata prosegue tranquillamente e, dopo una doccia rigenerante, la stanchezza ci porta dritti, dritti a letto. La sveglia suona a metà mattinata ed un nuovo giorno inizia: il primo giorno a Mazabuka, il primo giorno di organizzazione generale, il primo giorno di lavoro, il primo giorno di giochi con i bambini! Infatti è proprio così, dopo avere sballato la valanga di pacchi di indumenti e viveri (ma non solo) portati dall’Italia, abbiamo deciso come dividerci per le attività della mattina.
Cinque di noi sono impegnati nella “Ndeke Community School” per affiancare il lavoro dei docenti nelle ultime settimane di scuola e correggere gli esami di fine anno di alunni provenienti da alcuni dei ‘grades’ (gradi). Nelle settimane seguenti sono stati affidati a loro due gradi, il grado 7 e il grado 9 della scuola, e i ragazzi hanno fatto attività di ripetizione/revisione in vista degli esami di ottobre.
Io scelgo di unirmi al gruppo che opera al “Mazabuka District Hospital”, l’ospedale che a Mazabuka accoglie anche gente dai villaggi e piccoli paese vicini. Ci dividiamo in diversi reparti: l’“Out Patients Departement”, ovvero l’accettazione e gli ambulatori di medicina generale, e chi opera qui indirizza i pazienti in base alle visite e misura pressione sanguigna, temperatura e pulsazioni ai pazienti che ne faranno richiesta; il “Children Ward”, il reparto dei bambini, dove sono in cura bambini con svariate patologie, dalla malaria, alla tubercolosi passando per altre patologie più semplici, ma difficilmente guaribili; il “Maternity Ward”, ovvero il reparto maternità, dove le infermiere hanno bisogno di semplici misurazioni di pressione sanguigna e temperatura, oppure di registrare l’arrivo o la dimissione delle giovanissime pazienti; il “Laboratorio d’analisi biologiche” e in particolare la sezione di biochimica ed ematologia, dove giornalmente vengono eseguiti prelievi e analisi su campioni di sangue, infetto e non, provenienti anche dagli ospedali che non hanno la possibilità di svolgere alcuni test specifici. Il mio lavoro inizia subito nel reparto maternità e si dice che ‘il buongiorno si veda dal mattino’, infatti non appena arrivo in reparto una delle due infermiere mi invita in sala parto perché due donne stanno per dare alla luce i loro bambini: per la prima volta nella mia vita assisto a due parti naturali! È sempre una grande emozione, ma per me lo è ancora di più perché mi trovo in Africa!!! Soddisfatta dell’evento a cui ho assistito e delle emozioni vissute, inizio il mio giro e registro la pressione sanguigna delle neo-mamme e la temperatura dei loro piccoli orsetti, anche se adesso arriva una grande difficoltà: devo scrivere quei nomi e cognomi che tanto mi suonano strani in lingua locale e allora faccio affidamento alla lingua inglese e pazientemente chiedo uno spelling. Poi faccio un salto nella stanza di ammissione e dimissione e compilo i documenti di Mirryam, una donna affetta da AIDS che ha dato alla luce una splendida bambina e che adesso può lasciare l’ospedale, le fisso una visita di controllo dopo un mese, le distribuisco una pillola di acido folico e vitamina A su indicazione dell’infermiera e la saluto.
Finisco la mia prima giornata e raggiungo gli altri, quando mi giunge la notizia della possibilità di lavorare in laboratorio: dati i miei studi in chimica, la cosa mi alletta non poco e decido di provare a dare una mano lì il giorno seguente. La struttura è stata costruita con contributi italiani e lo si legge dalle targhette all’esterno. La pulizia è impressionante per quel posto…ma del resto è normale, sono in un laboratorio, e per di più di analisi biologiche! Conosco Tuedess, una donna qualificata che lì effettua i prelievi. La sua qualifica, però, le frutta solo 1.400.000 K, praticamente 200€ mensili, e con questi si mantiene e, da separata, mantiene i suoi cinque figli. Lavora prevalentemente nella sezione di biochimica, dove svolge analisi su sangue per controllare se i pazienti sono affetti da AIDS ed è proprio da lì che inizio. Prima ancora di mettere mani alla macchina, una cosa importante che mi dice è: “No water, no work!”, è la regola fondamentale del lavoro in laboratorio…per questioni di sicurezza, se non c’è acqua non si lavora! Imparo a caricare i campioni, impostare i parametri e far partire l’analisi e così proseguo autonomamente, lasciando che Tuedess si renda utile in qualche altra sezione. Infatti ci sono solo tre persone impegnate nelle analisi e nei prelievi, il resto è personale che si interessa dell’amministrazione. Fin qui ‘il mio lavoro’ mi piace!
Ma non è finita qui: mi rendo conto dell’elevato numero di prelievi fatti in determinati giorni e chiedo di poter passare nella sezione di ematologia per svolgere ogni tipo di analisi su quei campioni di sangue. Vengo accontentata, anche perché Tuedess mi spiega che il lunedì e il venerdì arrivano in laboratorio i campioni di sangue dagli ospedali dei compounds vicini e a volte sono veramente numerosi, anche 200 al giorno! Su ognuno c’è da fare il conteggio di globuli rossi e bianchi. Attualmente solo una persona si occupa di questa sezione, è Leonard, il personale delle pulizie della struttura, che ha quasi completamente dimenticato cosa sia una scopa perché la maggior parte delle volte indossa il camice e i guanti e si rintana nel laboratorio. Peccato, però, che il suo stipendio sia rimasto quello di un uomo delle pulizie, nonostante il lavoro sia raddoppiato…guadagna 800.000 K al mese, circa 115€, è sposato con tre figli e spesso deve fare un bel po’ di rinunce per arrivare a fine mese!
Mi ambiento subito in quello che inizio già a sentire il ‘mio laboratorio’ e mantengo la massima calma per evitare di confondere l’ordine dei campioni pena la consegna di risultati a persone sbagliate. Inizio a conoscere meglio di me stessa la macchina con cui lavoro e procedo a ritmo sempre più serrato.
Uno dei tanti giorni, però, arrivo in laboratorio e Leonard non c’è. Al suo posto trovo Mr. Mweebo, praticamente l’ultimo che mi mancava per completare la triade degli addetti in laboratorio! Lui, però, è il vero tecnico del laboratorio…conosce ogni macchina in ogni suo pezzo e conosce ogni problema, che è in grado di risolvere. Approfitto della sua presenza e lo tempesto di domande per saperne di più su reagenti e quant’altro mi interessi in quel laboratorio…la curiosità è tanta e le risposte sono abbastanza esaurienti.
Grazie a Mr. Mweebo imparo a fare un altro esame sul sangue, quello che noi chiamiamo VES, velocità di eritrosedimentazione, in modo da poter aiutare anche su questo fronte.
In una mattina mi viene detto che non c’è acqua: non essendoci automaticamente lavoro (così come mi aveva insegnato Tuedess), faccio un salto al reparto bambini.
Sono tanti, all’inizio non si fidano molto di te perché, specialmente i più piccoli, notano il colore bianco della pelle e hanno un po’ di paura, hanno degli occhi bellissimi e dei volti dolci nonostante la malattia e le loro mamme a volte sanno di poterli perdere da un giorno all’altro.
Nei numerosi, seppur brevi, momenti passati in quel reparto ho potuto affezionarmi a quelle meraviglie della natura che di certo non hanno mai desiderato trovarsi in quella circostanza. Ho conosciuto Ben, Aphen, Ackim, Edith e tantissimi altri bambini ricoverati per malnutrizione, denutrizione, tubercolosi, malaria, fratture, ustioni, difficoltà respiratorie, infezioni cutanee, ecc…e purtroppo non sempre li ho ritrovati tutti da un giorno all’altro.
Ma le mattinate in ospedale passano velocemente, supero quella che generalmente si chiama ‘settimana d’adattamento’ ed entro a pieno ritmo anche nella routine di “City of Joy”, praticamente la routine pomeridiana!
Il complesso ora consta di tre strutture (due case per ragazze e la “Casa del Volontario” che dopo l’inaugurazione è diventata “Casa Ruvo”) e una in fase di completamento (il salone/oratorio). Per prima cosa mi sono impegnata nelle decorazioni delle camere con i vari stencils, ho passato del tempo con i bambini dei compounds vicini ma anche quelli della “Luyobolola School” (il progetto di Don Maurizio a cui ho lavorato lo scorso anno), mi sono impegnata ai fornelli, nelle pulizia degli ambienti comuni e in tutto ciò che potesse essere necessario.
Per quanto riguarda i bambini, sono stati sempre lì, ogni pomeriggio, ad aspettarci per passare del tempo con noi, ci hanno abilmente trasformato i capelli, e i loro “Hiwe, How are you?” li sento ancora nella testa! Ma sapevo che la nostra partenza, per quanto dolorosa per loro, sarebbe stato un motivo per sperare e li avrebbe resi sempre più pazienti in attesa di rivederci di nuovo, così come accade ogni anno.
Poi c’è stato l’addio a Mazabuka, il saluto di tutti e il ritorno in Italia, traumatico come sempre…devo dire, però, meno traumatico dello scorso anno, ma pur sempre forte! Che dire ancora?! Queste sono esperienze che bisogna fare almeno una volta nella vita: richiedono determinazione, grande spirito di adattamento, grande forza d’animo e maturità, però arricchiscono tanto e grazie all’Africa non si può che crescere!! E non importa se a volte tra i souvenirs in valigia c’è anche qualche piccolo raffreddore da curare con calma in Italia, perché ciò che si prova, ciò che si vede, ciò che si fa durante un’esperienza del genere vale molto di più di una vacanza ad Ibiza!!!

Alessandra Brucoli